PRODUZIONI


DANTE IN LOWFIELD

 

Regia: Antonio Ligas

Sassofoni: M° Clara Galuppo
Percussioni: Enrico Maria Valerio
Costumi: Sandro Mastrostefano
Trucco: David Santangelo
Oggetti di scena: Antonella Struzzolino

Con:
Raffaello Lombardi
Paola Cerimele
Alisia Ialicicco
Andrea Cerullo
Giada Di Palma
Roberta Fanzini
Sara Ferrigno

 

E gli allievi della Compagnia Stabile del Molise:
Andrea Campopiano, Angela Tiziana Anzovino, Antonella Varanese,,Benedetta Colalillo, Elisa Scocchera, Francesca Bozza, Francesco Di Nucci, Gaia Giovannitti, Giorgia Di Mario, Giulia Calenda, Giuseppe Campestre, Greta Piciocco, Guido Rossi, Ilenia Letanno, Laura De Camillis, Manuel Boccamazzo, Manuel Liberatore, Miriam Cardillo, Nadia Chiarizia, Pamela Gacioppo, Paolo Di Tosto, Rosana Pacchioli, Rossanna Avolio, Sharon Santella, Silvana Reale, Simona Laboccetta, Sofia Elena Scasserra, Ylenia Volpe.

Note di regia
Immaginare l’Inferno è la nuova sfida che ci poniamo in quest’anno tanto importante quanto ferale. L’idea che ci siamo fatti della prima cantica della Commedia – lavorando alacremente su un florilegio di canti volutamente frammentati – è decisamente complessa e non troppo semplice da riassumere.
Abbiamo intrapreso questo viaggio dantesco come un pellegrinaggio dell’intelletto, una ricognizione del lato più recondito e oscuro del pensiero, là dove il bene e il male confliggono e si permeano al contempo.
Dante come una categoria umana e non come personaggio: non è nostra intenzione raccontare la navigatio letteraria, ma celebrare la necessità che l’Uomo ha (o che dovrebbe avere) di sprofondare nell’abisso della propria esistenza per restituirsi una vita più consapevole, per aprire gli occhi di uno sguardo che rifletta la luce di quelle stelle di conoscenza appese ad un cielo di rinnovamento appoggiato ad un orizzonte di speranza.
Porre l’Inferno al centro è per noi evocare un’eco che viene di lontano: è l’Inferno stesso che parla e rigurgita frammenti che richiamano quell’antico incontro tra un poeta e un regno ultraterreno, come il flusso di una coscienza – in questo caso – non umana. Immaginiamo che a parlare non siano più i personaggi, ma le pareti, i pavimenti, le acque, i venti. Tutti gli elementi climatici e materici che connotano il più mefitico dei regni ultraterreni sono chiamati in causa come prove di quel metafisico passaggio.
Rinunciamo ad una drammatizzazione volta a incarnare dei personaggi già fortemente umani; andremo alla ricerca di un totale annullamento dell’identità attorale a favore dell’innalzamento verso il mito, il quale si manifesta insufflando la propria presenza nelle bocche degli attori, umili cantori del verso poetico e danzatori in lotta con l’oblio.
Non più donne né uomini, ma corpi, voci, essenze, strumenti medianici e sciamanici che si prestano a compiere un rito di rievocazione attraverso la parola che diventa formula magica, come nella tragedia greca o nelle tradizioni popolari.
Aderiremo all’esigenza – che il verso di Dante stesso presuppone – di una recitazione obbediente alla metrica dell’endecasillabo rimato e alle figure retoriche che ne sono corollario e proprio attraverso questi mezzi stilistici intendiamo riempire le parole di tutte le sfumature che la Commedia vorrà rivelare.
Pochi e semplici elementi scenografici e di costume saranno utili a tracciare un segno labile, un tratto effimero che apra, per breve che sia, uno squarcio dimensionale e permetta al pubblico di assistere al passaggio delle ombre dannate, alcune delle quali si racconteranno in terza persona, rubando stralci di canto per darsi voce ancora una volta, per rendere testimonianza della loro caduca presenza hic et nunc.
Percussioni e sassofoni saranno il contrappunto non verbale di questo magmatico scorrere di voci; legni e metalli soffiati e picchiati: controcanto non verbale dell’ossessionante punizione alla quale è sottoposta la lunga tratta di gente sprofondata nel regno dell’eterno dolore.

 

 


IO SONO MISIA

IO SONO MISIA
Liberamente ispirato alle memorie di Misia Sert, alle confidenze, messaggi, lettere, di Proust, Stravinsky, Diaghilev, Nijinsky, Debussy, Toulouse-Lautrec, Picasso, Ravel, Cocteau… su Misia, la regina di Parigi.
di Vittorio Cielo
 
regia Francesco Zecca
 
con Lucrezia Lante della Rovere 
 
luci Pasquale Mari
scene Gianluca Amodio
costumi Alessandro Lai
musiche Diego Buongiorno
regista assistente Arcangelo Iannace
produzione Compagnia Stabile del Molise in collaborazione con DoppioSogno
promosso da Fondazione Devlata
Atto unico – con rumori d’epoca, e musiche dedicate, o nate, in casa di Misia.
Io non partorisco. Io-Faccio-Partorire. Gli uomini hanno bisogno di una sfinge, per partorire… la bellezza. Per diventare artisti.
Io li faccio partorire. Li ho fatti partorire, tutti!… Dicono che il mio talento sia saper annusare il talento. Dove tutti vedono un nano, io vedo un Toulouse-Lautrec. Se c’e una tizia a occhi bassi, contro il muro, io sento profumo di Cocò, nel senso che avrà per le donne, Chanel.
Sono una cercatrice di geni. Una cercatrice di meraviglie umane.
Detesto suonare. Perché amo la musica. Ho imparato sulle ginocchia di Liszt vecchio, la faccia tutta verruche come la scorza di un albero, i capelli lunghi a bacchetta, bianchi come un salice ghiacciato, che cadevano su di me.
Con i miei occhi color malva, ho visto ora dopo ora, inevitabilmente… Pablo Ruiz trasformarsi nel mostro-Picasso. Debussy disteso sui miei divani, sognare il sesso del fauno. Cocteau fare la corte agli attori come in Marocco. Stravinsky incendiarsi nella Sagra di Primavera. Ravel ricamare musica per dispetto di Satie.
Il carnefice di ballerini Diaghilev, il Domatore di Nijinsky, far impazzire quel dio della danza.
E Proust, scrivere ogni cosa, ogni parola… detta da tutti. Fino a mettermi nella seconda riga, della prima pagina, della Recherche.
Il libro che non finirà mai, perchè il Tempo… è infinito.
Come il genio che divampa negli uomini.
Le università la chiamano ‘cultura’. Io la chiamavo: averli tutti a cena da me, a casa.

AMLETO

Amleto

DANIELE PECCI – UFFICI TEATRALI

regia di Filippo Gili

con Massimiliano Benvenuto, Silvia Benvenuto, Ermanno De Biagi, Pierpaolo De Mejo, Vincenzo De Michele,Luca Di Capua, Pietro Faiella, Vito Favata, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Liliana Massari, Daniele Pecci, Omar Sandrini.

Una produzione: Compagnia Stabile del Molise

 

Note di regia

E’ un progetto che nasce con Daniele Pecci. Quando Daniele mi ha chiesto se volevo curare la regia di un ‘Amleto’ con lui protagonista, è stato come ritrovarsi un ombrello sotto la pioggia. Era quello che attendevo. Ed è quello che faremo. Daniele, io, i miei soci degli Uffici Teatrali, e la Compagnia Stabile del Molise: mettere un ombrello sotto le infinite letture di un testo infinito. Un ombrello che copre una parte di mondo, il palcoscenico della rappresentazione, spoglio di letture forzate, unicamente teso al gioco di analizzare perché, all’alba del ‘600, nacque un uomo che vide il mondo uscire dai suoi binari. Se si fa Amleto, oggi, è perché è infinita la malizia di Polonio, è perché è infinito il torpore morale di Gertrude, è perché è infinita la dannata verginità di Ofelia, è perché è infinita l’intuizione politica di Claudio: un impero, da Don Chisciotte, passando per il potere dell’atomo fino ai microchip odierni e per chissà quanto ancora, si può mettere a soqquadro solo con l’ausilio di una goccia di veleno. Con Amleto si porta sulle spalle un peso che lo porta ai giorni nostri: quello di un vivere nel mondo, senza ‘esserci’.

La nostra messinscena invade la sala non per blasfemia pirandelliana, ma perché intende tutto l’edificio teatrale come paradigma di Elsinore, come articolazione e ‘stacco’ di stadi scenici che si sviluppano tra platea, scaletta, proscenio, sipario e palcoscenico. Che sarà nudo perché realistica sia la percezione dell’autenticità ambientale. Con Polonio, protomartire della segretezza, della manipolazione invisibile, di quel nuovo mondo che Orwell sugellerà qualche secolo dopo, a gestire il sipario, ad aprire e chiudere quell’infinito ‘arazzo’ dietro cui non si nasconde e muore il consigliere del re, ma dove si nasconde e muore la coscienza di un pubblico troppo interessato a starsene al buio, per schivare comodamente i colpi di pugnale di principi e uomini che vorrebbero, solo vorrebbero, riassettare il mondo.

Filippo Gili

RASSEGNA STAMPA

– 30 MARZO 2015 Articolo del quotidiano “Corriere della Sera”  : Recensione Emilia Costantini 

– 26 APRILE 2015   www.saltinaria.it  : Recensione Ilaria Guidantoni


Sistema Čechov

Sistema Cechov

TRE SORELLE – IL GABBIANO

da Anton Čechov
adattamento e regia Filippo Gili
aiuto regia Francesca Bellocci
con Massimiliano Benvenuto, Paola Cerimele, Ermanno De Biagi, Vincenzo De Michele, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Raffaello Lombardi, Liliana Massari, Rosanna Mortara, Omar Sandrini, Vanessa Scalera.


IL CAPPELLO DI FERRO

Il Cappello di Ferro

COMPAGNIA STABILE DEL MOLISE e FONDAZIONE MOLISE CULTURA

IL CAPPELLO DI FERRO
tratto da ‘Un soldato contadino – lettere dal fronte 1915/1917’
di Anna Falcone
da un’idea di Sandro Arco
regia di Emanuele Gamba
con Paola Cerimele, Raffaello Lombardi, Giorgio Careccia, Giulio Maroncelli.

scene di Nicola Macolino.

A metà strada fra Lussu e il “buon soldato Svejk” questo nostro spettacolo intende dare un contributo alla ricostruzione della memoria di quello che è stato uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’uomo. Oltre a rappresentare un valido ed originale strumento di analisi delle vicende storiche di quel periodo, stare accanto a Giuseppe nel suo anno e mezzo al fronte ci permette di conoscere la Grande storia attraverso la storia piccola ed anonima di un giovane contadino che ha dovuto passare dai campi alla trincea, che ha messo a disposizione il suo personale “genio” al servizio di una causa lontana e spesso incomprensibile.

Giuseppe Serpone, nato a Toro (Campobasso) il 19 marzo 1894, viene arruolato nel 1915 all’età di 21 anni nel 212° Fanteria, Brigata Pescara, Genio zappatori; il giovane trascorre un iniziale periodo di addestramento militare a Chieti e nel Pescarese per poi giungere nella zona di guerra nell’aprile del 1916. Partecipa ad importanti eventi bellici, tra i quali la presa di Gorizia dell’agosto del 1916. Giuseppe muore nel 1917 nell’alta valle dell’Isonzo. È sepolto a Caporetto.
Giuseppe Serpone scrive dal fronte circa 150 tra lettere e cartoline descrivendo la vita di trincea, le dure condizioni di vita dei soldati, la sua angoscia per una pace che non arrivava e il dolore per il distacco dalla moglie – sposata pochi mesi prima della sua partenza – e dai suoi genitori.
Tanti sono i particolari che il ragazzo racconta sulla sua dura vita di soldato e anche su episodi molto importanti della “grande guerra” quali la conquista di Gorizia.
Serpone scrive la sua ultima cartolina alla moglie il giorno 6 giugno 1917 infatti, il giorno dopo, alle ore 10 di mattina, presso quota 900 a Plezzo, nell’alta valle dell’Isonzo, in un luogo non lontano da Caporetto, Giuseppe Serpone resterà colpito a morte con una pallottola in fronte.
Alla sua morte, la giovane moglie Maria Antonia, sposa, secondo le usanze dell’epoca, Francesco, fratello di Giuseppe, sopravvissuto alla guerra.
Giuseppe muore a 23 anni il 6 giugno 1917.

Note di regia
Attraverso la narrazione di 25 di queste 150 lettere scritte dal fronte sarà ripercorsa la vicenda di Giuseppe Serpone, uno dei tanti giovani molisani che combatterono e morirono durante la prima guerra mondiale.
Nella storia personale di questo contadino molisano poco più che ventenne, la dignità e il senso di un dovere non effimero o semplicemente dimostrativo, cozzano fortemente con il pressapochismo degli alti ufficiali di quell’esercito italiano, spesso pronti a sacrificare, come sempre, i più poveri per ottenere risibili vantaggi in termini territoriali. Le parole mai fuori luogo che il soldato Serpone metteva faticosamente insieme e che spediva con una regolarità impressionante, tenuto conto del contesto da trincea nel quale visse per anni, furono il ponte immaginario e per questo intoccabile, che lui, ogni sera, attraversava per giungere nuovamente a casa, da quella moglie che dovette lasciare poco dopo aver sposato, da quel padre a cui confidava le paure più grandi e le tragedie che viveva e che, alla moglie e agli altri, voleva risparmiare anche solo di citare, come se il solo non nominarle, anche da così lontano, potesse evitare di farle giungere, con tutto il loro fragore inumano e irragionevole, nella terra che aveva dovuto abbandonare e che non poté più rivedere. Infatti, Giuseppe Serpone, morì nell’alta Valle dell’Isonzo, in una mattina di giugno, colpito alla testa da un cecchino. La sera prima, però, era riuscito, comunque, a dimostrare a sua moglie che era ancora il suo amato marito, scrivendole un’ultima, immancabile, lettera. Emanuele Gamba.

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